In tema di deducibilità dei costi e della detraibilità dell’Iva la Corte di Cassazione Civile (Ordinanza n. 22490, 4 agosto 2025) ha ribadito un principio più volte affermato: nel caso di fatture per operazioni inesistenti, una volta assolta da parte dell’Amministrazione finanziaria la prova, anche mediante elementi indiziari, dell’oggettiva inesistenza delle operazioni, spetta al contribuente dimostrarne l’effettiva esistenza.
A tale scopo, tuttavia, non è sufficiente esibire la fattura, né dimostrare la regolarità formale della contabilità o dei mezzi di pagamento utilizzati, i quali vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia.
Più precisamente, l’onere posto a carico dell’Amministrazione può ritenersi assolto, quando vengano forniti validi elementi – anche sotto forma di indizi attendibili, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. 600/1973 e dell’art. 54, comma 2, del d.P.R. 633/1972 – idonei a dimostrare, in modo certo e diretto, l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati ovvero la inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione.
Sarà poi il giudice di merito che, solo dopo avere valutato gli elementi presuntivi forniti dall’Ufficio, sia singolarmente che complessivamente, ritenendoli dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, potrà esaminare l’eventuale prova contraria offerta dal contribuente, verificando se la stessa sia idonea a scalfire il quadro probatorio posto alla base dell’atto impositivo.
Nel caso specifico, osserva la Corte di Cassazione, i giudici di merito non hanno applicato correttamente tali principi, limitandosi a procedere ad un esame parcellizzato dei vari elementi indiziari, posti dall’Ufficio a fondamento dell’inesistenza delle operazioni contestate.